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HURBINEK
(Primo Levi, La tregua, in Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, pp. 215- 216)
Fuori dai vetri, benché nevicasse fitto, le funeste strade del campo non erano piú deserte,
anzi brulicavano di un viavai alacre, confuso e rumoroso, che sembrava fine a se stesso. Fino
a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o iraconde, richiami, canzoni. Ciononostante
la mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva ad eludere la presenza
ossessiva, la mortale forza di affermazione del piú piccolo ed inerme fra noi, del piú
innocente, di un bambino, di Hurbinek.
Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa,
nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome,
Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato
con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era
paralizzato dalle reni in giú, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi,
persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di
asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli
mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo
sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi
maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.
Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di
quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia dì Hurbinek metà delle sue giornate. Era
materno piú che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse
protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio
che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di
baci, ma fuggivano la sua intimità.
Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza
triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani
abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e
paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione,
che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non
ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l'orecchio: era
vero, dall'angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre
esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole
articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse
a un nome,
Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo
ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c'erano fra noi parlatori di tutte le lingue
d'Europa: ma la parola di Hurbínek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una
rivelazione forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse (secondo una
delle nostre ipotesi) voleva dire «mangiare», o «pane»; o forse «carne» in boemo, come
sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua.
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero, –
Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all'ultimo respiro, per conquistarsi
l'entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il
senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz;
Hurbinek morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui - egli
testimonia attraverso queste mie parole.